Scoperte sulle basi delle reazioni ansiose
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 27 giugno 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Dopo l’individuazione da parte di Cannon dell’asse simpato-adreno-midollare, che porta al rilascio di adrenalina, e l’identificazione
da parte di Selye dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene,
che determina l’immissione in circolo di glucocorticoidi, si dedusse un legame
fra generica risposta a un fattore stressante e reazione ansiosa; ma,
sulla base della distinzione classica della semeiotica psichiatrica fra ansia
e paura, che considera la prima una “paura senza oggetto”, l’attenzione
dei ricercatori si focalizzò sulle basi neurobiologiche della paura.
Individuati i sistemi dell’amigdala quali principali mediatori dello
stato cerebrale causato da una minaccia per l’integrità dell’organismo, si è
poi seguita questa principale direzione nella ricerca su processi e meccanismi
dell’ansia. In epoca recente sono stati individuati dei meccanismi interni,
come quello del locus coeruleus che, in assenza di una minaccia
materiale nell’ambiente, riaccendono i circuiti di risposta alla minaccia, come
in un continuo rinnovarsi di una paura, secondo quanto accade negli stati
ansiosi e nei disturbi da stress.
Attualmente, un importante oggetto di indagine
sperimentale è costituito dal ruolo degli interneuroni inibitori positivi alla parvalbumina (PV). L’ipotesi condivisa dal maggior numero
di ricercatori è che tali neuroni svolgano ruoli di modulazione delle risposte
emozionali attraverso i locali neuroni di proiezione spinosi medi (MSN).
Qian Xiao e colleghi hanno dimostrato che l’attività dei neuroni
PV all’interno della parte che costituisce il guscio del nucleo
accumbens è richiesta per produrre l’evitamento simile al comportamento
ansioso, quando dei topi sono sottoposti a situazioni ansiogene. La frequenza
di accensione degli interneuroni PV del guscio del nucleo accumbens era
negativamente correlata col tempo di esplorazione nei bracci aperti del
labirinto, ossia in un ambiente minaccioso.
I ricercatori hanno scoperto anche una nuova via
GABAergica che raggiunge gli interneuroni PV del guscio del nucleo
accumbens.
(Soden M. E., et al. Anatomic
resolution of neurotransmitter-specific projections to the VTA reveals
diversity of GABAergic inputs. Nature
Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-020-0657-z, 2020).
La provenienza
degli autori è la seguente: Department of Psychiatry and Behavioral Sciences,
University of Washington, Seattle, WA (USA); Department of Pharmacology, University
of Washington, Seattle, WA (USA); Department of Neurology, Northwestern
University, Chicago, IL (USA).
Recentemente ho ricapitolato le principali tappe storiche della ricerca
sulle basi neurali dello stress dagli anni Trenta del Novecento alla prima documentazione
nel 1995 di un danno da stress al cervello umano da parte di Douglas Bremner:
“È opportuno ricordare che le tappe
della ricerca sulle basi della risposta dell’organismo allo stress è parte integrante della storia
della fisiologia, e che le nozioni e i concetti fondamentali emersi da questi
studi costituiscono ancora la struttura portante della logica con la quale ci
rapportiamo a temi e problemi dell’equilibrio dinamico dell’organismo nel suo
ambiente.
Il fisiologo americano Walter Cannon
introdusse per la prima volta il concetto di stress biologico in una trattazione scientifica nella seconda
decade del Novecento, per indicare l’azione di fattori, eventi o condizioni in
grado di superare le capacità dei meccanismi
omeostatici, rompendo l’equilibrio dinamico necessario, ad esempio, per
conservare la temperatura corporea e i livelli ematici di glucosio entro
l’intervallo di valori fisiologici[1]. Cannon studiò la risposta dell’organismo allo stress, quale reazione integrata ed
aspecifica in condizioni di emergenza, e la identificò con il processo alla
base del comportamento animale istintivo noto come fight or flight reaction[2],
descrivendo la redistribuzione del flusso ematico che avviene in questo stato:
la riduzione nei distretti cutaneo e splancnico, contrapposta all’aumento della
portata a cuore, cervello, organi di senso, polmoni e grandi muscoli, a
supporto dell’assetto fisiologico che consente all’animale di reagire
efficacemente ad una minaccia per la vita. Perrella nota, in proposito, come la
comparsa nella filogenesi del sistema nervoso “abbia consentito a singoli
individui di una specie di rispondere individualmente ed immediatamente ad una
minaccia per l’incolumità, scegliendo se eliminare l’origine individuata con i sensi, attaccandola, o sottrarsi alla circostanza, fuggendo”[3].
Il fisiologo americano “rimuoveva la corteccia
cerebrale nel gatto e ne studiava le conseguenze in termini di fisiologia
sistemica e di comportamento dell’animale. In tali condizioni rilevò un aumento
delle reazioni di paura a situazioni potenzialmente minacciose, o semplicemente
nuove, accompagnate da attivazione adrenergica, con aumento della pressione
sanguigna, sudorazione, piloerezione ed aumentata
secrezione di adrenalina surrenalica. Definì questa reazione “sham rage” – di solito tradotta
nei testi di fisiologia italiani con “rabbia fittizia”, ma sarebbe più giusto
definirla “rabbia artificiale” in quanto conseguenza di asportazione della
corteccia cerebrale – e propose l’ipotesi che una serie di strutture poste sopra
il Mesencefalo fossero implicate nella genesi delle emozioni; in particolare
indicò l’Ipotalamo, il Talamo, l’Ippocampo ed il Giro del Cingolo”[4].
“Nel corso dei suoi esperimenti il fisiologo ebbe
anche modo di testare l’effetto di stimoli psichici in grado di evocare
risposte affettivo-emotive nell’animale. I risultati di questa ricerca gli
consentirono di dimostrare, per primo, che diverse condizioni agenti
direttamente sulla psiche dell’animale, senza il condizionamento del dolore
fisico, nel provocare rabbia o paura scatenavano un’identica reazione simpato-adreno-midollare. Questa
osservazione cruciale lo condusse alla formulazione di un principio, purtroppo
spesso trascurato nei decenni successivi[5]: “al pari
di una omeostasi organica esiste una omeostasi psichica la cui perturbazione
provoca le stesse modificazioni periferiche che si osservano quando l’organismo
viene sottoposto a stress di natura
fisica”[6].
Dieci anni dopo la pubblicazione della teoria di Cannon, il neuroanatomista Papez
ipotizza un’elaborazione in sequenza delle emozioni da parte di un circuito con
punto di partenza e di arrivo nell’ipotalamo, ed esteso a tutte le strutture del
lobo limbico, ossia il Circuito di Papez[7].
Sicuramente suggestiva, oggi questa ipotesi ci appare ingenua e infondata. In
quello stesso periodo, Kluver e Bucy
stabilirono un rapporto tra memoria ed emozioni asportando nelle scimmie parti
estese del lobo temporale. Queste scimmie sembravano prive di paura e risposte
emozionali, ma non riconoscevano più oggetti a loro familiari e perfino il cibo[8].
Nel decennio successivo, McLean, sintetizzando
gli studi di Papez e quelli di Kluver
e Bucy, denominò cervello
viscerale il rinencefalo dei
mammiferi inferiori; ma, soprattutto, introdusse l’amigdala, il setto e la corteccia prefrontale nella descrizione
sistematica del cervello emozionale, adottando nella fisiologia delle emozioni
la definizione di lobo limbico[9].
Il medico ungherese Hans Selye,
considerato dai ricercatori del suo tempo il massimo esperto di effetti dello stress sull’organismo, pubblicò i primi
risultati delle sue ricerche nel 1936 sulla rivista Nature: definì la risposta dell’intero organismo a fattori o
condizioni stressanti sindrome generale
di adattamento, sottolineando la partecipazione globale ad un assetto
fisiologico dal significato di difesa efficace ad adattare l’animale a
circostanze minacciose, estreme o traumatiche. In questa “sindrome” Selye distingue una iniziale reazione di allarme da una fase
di resistenza successiva. Il contributo più importante del ricercatore
ungherese consiste nella scoperta dell’attivazione dell’asse
ipotalamo-ipofisi-surrene, con la produzione di glucocorticoidi (cortisolo
nella specie umana) per azione dell’ACTH, a sua volta stimolato dall’ipotalamo.
Comprendendo le potenzialità patogene dell’attivazione protratta di questa via
neuroendocrina, inizialmente attivata a fini adattativi, Selye
considerò “malattie dell’adattamento” la maggior parte dei disturbi psichici e
psicosomatici.
È opportuno rilevare che “Selye
conferisce al termine stress un nuovo
valore semantico, definendolo come la somma di tutte le modificazioni indotte
da ogni impegno fisico o psicologico in grado di provocare la sindrome generale
di adattamento[10]. Quindi,
mentre Cannon identificava lo stress con gli agenti stressanti (stressors), per Selye lo stress
era costituito dalla risposta che questi inducono nell’organismo e, in ultima
analisi, dalla stessa sindrome di adattamento. In estrema sintesi, si può dire
che a Cannon dobbiamo la scoperta dell’attivazione
del sistema simpato-adreno-midollare
e a Selye quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene”[11].
Tutti gli studi successivi hanno preso le mosse
dalla base fisiologica individuata da Cannon e Selye.
La concezione attuale è stata così esposta in
sintesi: “Oggi definiamo lo stress come
uno stato di disarmonia o di alterata omeostasi che può essere provocato da
vari fattori di natura fisica e/o psichica (agenti stressanti o stressors) e al
quale l’organismo reagisce specificamente attivando una serie di meccanismi
fisiologici di natura neuroendocrina (sistema dello stress) che innescano e/o modulano una serie di funzioni fisiche e
comportamentali (risposte adattative),
aventi lo scopo di adattare l’organismo alla nuova condizione e di ripristinare
l’omeostasi iniziale”[12].
Fra i meccanismi di sistema ritenuti responsabili
della patogenesi dei sintomi del PTSD, quale esito patologico di stati
protratti di alterata omeostasi, vi è quello che implica l’intervento del locus coeruleus. In sintesi: eventi
stressanti o minacciosi, riconosciuti ed elaborati dalla corteccia cerebrale,
raggiungono l’amigdala, che può essere attivata anche da evocazioni o stimoli elaborati
inconsciamente; l’amigdala rilascia il CRH che attiva la produzione
simpatico-midollare di adrenalina e stimola l’asse ACTH-cortisolo, preparando
l’organismo alla fuga o all’attacco. Se lo stress
perdura o è molto intenso, il cortisolo attiva il locus coeruleus che, mediante la noradrenalina, stimola l’amigdala
a produrre CRH, innescando il circolo vizioso ritenuto responsabile della patogenesi[13].
Dopo aver ripercorso le tappe salienti della
ricerca sulla fisiologia della risposta allo stress, è interessante considerare, sia pure in estrema sintesi,
l’evoluzione della concezione in medicina e in psichiatria della patologia da stress.
Nel 1871, durante la guerra civile americana, Da
Costa descrisse in soldati esposti allo stress
del combattimento una sindrome caratterizzata da spossatezza, irritabilità,
costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed accentuazione
generalizzata delle risposte fisiologiche. Il medico americano studiò le
manifestazioni cardiovascolari, consistenti nell’aumento della forza di
contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed innalzamento della pressione
arteriosa, rendendosi conto dell’origine non cardiologica di questi segni[14]. Da Costa
definì questo quadro clinico soldier’s irritable heart (cuore
irritabile del soldato) e lo considerò parte di una sindrome di attivazione dell’intero
organismo, alla cui origine riconobbe lo stato psichico determinato da paura e
tensione estreme[15]. Si
tratta della prima formulazione nosografica di un disturbo da stress, denominato con l’eponimo Da Costa’s Syndrome[16].
Kraepelin, pioniere della nosografia
psichiatrica, descrisse una sindrome da trauma psichico con il nome di schreckneurose,
reso in inglese con fright neurosis,
letteralmente “nevrosi da spavento”[17]. Freud,
la cui elaborazione teorica degli effetti delle esperienze traumatiche
esulerebbe dai limiti di questa sintesi, consultato nel 1915 circa il crescente
numero di vittime della tensione e dell’angoscia causate dall’esperienza della
Prima Guerra Mondiale, propose la diagnosi di Kriegneurose, ossia “nevrosi di
guerra”, attribuendone la causa al conflitto che si determina fra l’impulso di
fuggire e il dovere di combattere. Numerosi autori descrissero sintomi psichici
causati dal trauma bellico, prevalentemente espressi come disturbi della
memoria ed interpretati su base dissociativa: dimenticanza del proprio nome sul
campo di battaglia, amnesia per dati personali ed eventi gravi appena accaduti,
fino a stati stuporosi con amnesia globale. Accanto a tremori intrattabili ed
ansia intensa, altri psichiatri riportarono sintomi simili a quelli dell’isteria di conversione della nosografia
dell’epoca, ossia paralisi (pseudoparalisi), mutismo e cecità temporanee[18]. In
assenza di fattori eziologici cerebrali riconoscibili che giustificassero
queste manifestazioni cliniche, i fautori di una visione neurologistica
conclusero che il cervello subisse danni concussivi
dalle esplosioni ravvicinate, e tali danni fossero responsabili dei sintomi.
Per questo tali sindromi furono denominate Shell
Shock o Shock da bombardamento (to shell = bombardare). Nello stesso
periodo, Pierre Janet ipotizzò che condizioni estreme o eventi traumatici fossero
in grado di determinare una scissione della coscienza tale che la vita mentale
potesse avere due processi paralleli operanti fianco a fianco, ciascuno dei
quali poteva essere o meno consapevole dell’altro. Lo psichiatra francese
osservò pazienti che presentavano sintomi quali vedere “come se fossero in un
tunnel” o senza colore, che avevano pause psichiche o si sentivano come se
fossero in un sogno, ovvero manifestazioni che oggi descriveremmo come
dissociazione da stress[19]. Ricordiamo
che Janet fornì la prima teoria della dissociazione, secondo una patogenesi
perfettamente coerente con le più avanzate conoscenze di neurofisiologia
dell’epoca.
Lo studio delle nevrosi di guerra e dello Shell
Shock riconosce una causa acuta alle amnesie sul campo di battaglia, ma
analizza anche il perdurare dei sintomi, spesso considerato un effetto di
affaticamento del sistema nervoso. Infatti, Mott ed
altri introducono la categoria nosografica della Combat Fatigue o affaticamento da combattimento[20].
Kardiner e Spiegel
(1930-38) interpretano i disturbi presentati a distanza di tempo dai veterani
della I Guerra Mondiale come il “perdurare della rottura delle funzioni egoiche”[21] espresse
in una psiconevrosi, negando di fatto l’esistenza di patologia cronica da stress. Sargent
e Slater (1941) studiano le sindromi
amnesiche da guerra; Torrie studia la patologia psicosomatica da stress. Nel 1945
Grinkel e Spiegel, che avevano introdotto la
definizione di Combat Neuroses,
pubblicano un volume che rimarrà per decenni una pietra miliare nello studio
degli effetti psicologici delle esperienze ansiogene e degli eventi traumatici:
Men Under Stress[22]. La
focalizzazione sull’eccesso di adrenalina all’origine di segni e sintomi porta
gli autori a suggerire nei casi più gravi la rimozione chirurgica delle
ghiandole surrenaliche.
La prima descrizione esaustiva di sindrome da stress cronico si
attribuisce ad Eitinger che, in uno studio condotto
dal 1948 al 1965 sui sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti,
definisce la Concentration Camp Syndrome[23].
Le difficoltà nello sviluppo di una nosografia di
riferimento per la diagnosi dei disturbi da stress
in assenza di precisi elementi di patogenesi dei sintomi sono riflesse nel
Manuale Diagnostico e Statistico dell’American
Psychiatric Association (DSM) che, nella prima
edizione del 1952, includeva la gross stress reaction
– probabilmente sotto l’influenza della casistica legata agli eventi bellici – mentre
nella seconda edizione del 1968 non riportava più questa diagnosi. Ma le
problematiche legate alla sintomatologia post-traumatica ritornarono di
attualità con lo studio dei reduci dalla guerra del Vietnam. Osservando questi
pazienti, Lawrence Kolb descrisse la startle response,
consistente nel sussultare per comuni suoni e rumori ambientali, e la attribuì
agli elevati tassi di noradrenalina presenti nei reduci afflitti da una
sintomatologia cronica. In questo periodo sono state elaborate le principali
teorie dello stress: la residual stress theory, la stress sensitization theory e la stress inoculation
theory.
Nel suo influente lavoro, Charles Figley (1978) sostenne che lo stress della guerra fosse in grado di determinare psicopatologia da
stress virtualmente in ogni persona
esposta, senza la necessità di una personalità premorbosa[24]. In
questa temperie psicopatologica, nel 1980 si introdusse nel DSM III il PTSD (Post Traumatic
Stress Disorder) quale disturbo indipendente nelle due varietà, acuto e cronico.
Nei primi anni la diagnosi era posta raramente,
anche per la definizione di trauma inclusa nel “Criterio A”: “Evento al di là
del normale spettro dell’esperienza umana”. Nelle versioni successive si
corregge questo limite: “Evento con minaccia per la vita od altro (evento)
significativo accompagnato da estrema paura, orrore o sconforto”[25].
Una parte considerevole delle conoscenze cliniche
ed epidemiologiche sul PTSD di cui oggi possiamo disporre si devono agli studi
di Richard Mollica, tra i fondatori nel 1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, e dei
gruppi di psichiatri che fanno capo alla sua scuola. Fondamentale il contributo
derivato dallo studio nel più grande campo di rifugiati cambogiani nel 1988.
Nel 1994 fu introdotto, come parte del DSM IV, l’Acute Stress Disorder (ASD) che, a differenza
del PTSD, prevede una durata della sindrome inferiore a un mese.
Il riferimento nosografico ha facilitato lo
studio degli effetti sull’encefalo dello stato di attivazione da stress di lungo periodo nella nostra
specie, con il lavoro di Bremner e colleghi che ha
inaugurato un metodo basato sull’osservazione mediante risonanza magnetica
nucleare (RMN), divenuto poi un approccio standard. Il team dello psichiatra americano confrontò un gruppo di veterani
affetti da PTSD con un gruppo di controllo equivalente, rilevando che le
persone affette dal disturbo presentavano in media un volume dell’ippocampo di
destra inferiore dell’8%, con un deficit di memoria direttamente proporzionale
alla perdita di tessuto nervoso ippocampale. Lo studio, condotto nel 1995,
documentò per la prima volta un danno da stress
nel cervello umano”[26].
Ritorniamo ora allo studio degli interneuroni PV del guscio esterno del nucleo
accumbens da parte di Qian Xiao e colleghi, che hanno direttamente associato la loro
attività ai comportamenti murini equivalenti dell’ansia umana: maggiore era la
frequenza di scarica di queste cellule, minore era la tendenza esplorativa in
un ambiente potenzialmente minaccioso. I ricercatori, in un modello murino di stress
cronico, hanno rilevato che i neuroni PV del guscio dell’accumbens presentavano
un’altissima eccitabilità, che generava un eccesso di comportamento disadattante
caratterizzato dall’evitare l’azione in un contesto ansiogeno.
Qian Xiao e colleghi hanno scoperto una nuova via inibitoria
che regola mediante GABA l’attività dei neuroni PV del nucleo accumbens:
gli assoni del tratto identificato vanno dal nucleo anteriore dorsale del
letto della stria terminale agli interneuroni PV del guscio nucleare.
Lo studio optogenetico delle
cellule nervose di questo nucleo del letto della stria terminale ha dimostrato
che la stimolazione dei loro afferenti sinaptici sulle cellule PV determina
marcati effetti ansiolitici, attraverso un rilevante rilascio di GABA.
Il passo sperimentale successivo è consistito nel
rilevare e dimostrare che gli agenti stressanti cronici erano in grado di
attenuare la trasmissione sinaptica inibitoria in questa nuova via che va dalla
stria terminale all’accumbens, determinando uno stato di ipereccitabilità
degli interneuroni PV, quale quello che normalmente si rileva nei modelli
murini di stress cronico, dimostrandone la causa. L’attivazione degli
afferenti GABAergici provenienti dalla stria terminale si è dimostrata in grado
di “guarire” i topi, eliminando il comportamento equivalente agli stati d’ansia
cronici umani.
L’ultimo passo del percorso sperimentale si è
articolato in due punti: 1) caratterizzazione molecolare dei neuroni che
dal nucleo anteriore dorsale del letto della stria terminale regolano gli
interneuroni PV del guscio nucleare: la maggioranza di questi
interneuroni inibitori, a differenza degli omologhi post-sinaptici, esprimeva somatostatina
(SOM); 2) studio della coordinazione fra cellule SOM e cellule PV, che
ha rivelato come la specifica relazione funzionale fra questi due tipi neuronici
sia all’origine della naturale inibizione del comportamento ansioso.
Tutto quanto emerso da questo studio, soprattutto
alla luce delle più recenti conoscenze di neurobiologia cellulare e molecolare
dell’ansia, fornisce elementi sufficienti per nuovi interventi terapeutici nel
trattamento dei disturbi di più frequente diagnosi in clinica psichiatrica.
L’autore della
nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza, e invita alla
lettura delle recensioni di studi di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-27 giugno 2020
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] I cenni storici e le nozioni
sulla fisiologia dello stress esposti
da qui in avanti sono tratti da G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), Dipartimento di
Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.
[2] Resa in italiano con “reazione di attacco o fuga”
(lett.: lotta o fuga).
[3] G. Perrella, op. cit., p. 4.
[4] G. Perrella, op. cit., p. 5. Cfr.
W. B. Cannon, The James-Lange theory of emotions: A critical reappraisal and an
alternative theory. American Journal of Psychology
39, 106-124, 1927.
[5] Mai completamente assimilato
nella cultura generale, questo principio consente di equiparare il malessere
soggettivo (illness) che accompagna le malattie
psicogene a quello della patologia ad etiologia organica.
[6] G. Perrella, op. cit., p. 6. La
citazione di Walter Cannon è ripresa da A. Calogero e
M. C. Serra, Lo Stress, p. 12, Quaderni di Patologia Generale, Piccin, Padova 1999.
[7] J. W. Papez, A proposed mechanism of
emotion. American Medical Association
Archives of Neurology and Psychiatry 38,725-743,
1937.
[8] H. Kluver & P. C. Bucy,
“Psychic blindness” and other symptoms following bilateral temporal lobectomy
in rhesus monkeys. American Journal of
Psychiatry 119, 352-353, 1937.
Cit. in G. Perrella, op. cit., p. 8.
[9] P. D. McLean, Psychosomatic disease and the visceral brain. Recent
developments bearing on the Papez Theory of Emotion. Psychosomatic Medicine 11, 338-353, 1949.
[10] Cfr. A. Calogero e M. C. Serra, op. cit.,
p. 13; H. Selye, The general adaptation syndrome and the diseases adaptation. Journal
of Clinical Endocrinology 6, 117-196, 1946.
[11] G. Perrella, op. cit., p. 11.
[12] G. Perrella, op. cit., p. 11. Si
descrivono una risposta centrale ed
una periferica. La centrale è caratterizzata dall’aumento
della vigilanza nello stato di veglia e dall’allerta, fino all’allarme vero e
proprio, con accentuazione dell’attenzione scopica,
perlustrativa ed esplorativa, associato ad incremento della capacità recettiva
con eretismo estesico; inoltre, si ha un
miglioramento della memoria impressiva. La risposta periferica include le modificazioni fisiologiche neurovegetative
che interessano i sistemi endocrino, respiratorio, cardio-circolatorio,
gastroenterico, tegumentale, con le azioni visceroeffettrici
ghiandolari, incluse quelle interessanti le ghiandole sudoripare (sudorazione adrenergica).
[13] Ricordato anche nella nostra
rubrica “Alfabeta” e citato in
numerose note, è riportato ne Il locus coeruleus rivisitato in “Note e Notizie” del 9 aprile 2016.
[14] Cfr. G. Perrella, op. cit., pp.
13-14.
[15] J. M. Da Costa, On irritable heart: A clinical study of a form of
functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science 161, 17-52, 1871.
[16]
J. D. Bremner, Does
Stress Damage The Brain?, p. 71, Norton, New York 2002.
[17] G. Perrella, op. cit., p.14.
[18] G. Perrella, op. cit., p.15.
[19] G. Perrella, op. cit., p.17.
[20]
F. W. Mott, War Neuroses and Shell Shock.
Oxford University Press, London 1919.
[21]
Cit. in Lawrence C. Kolb, Psichiatria Clinica, p. 704, Idelson,
Napoli 1979.
[22] Grinkel R. R.
& Spiegel J. P., Men Under Stress.
Blackiston, Philadelphia 1945.
[23] G. Perrella, op. cit., p.19.
[24] Charles Figley
cit. in G. Perrella, op. cit., p.26.
[25] G. Perrella, op. cit., p.28.
[26] Note e Notizie 15-09-18 Difetti
di circuito nel disturbo post-traumatico da stress.